sabato 17 novembre 2012

Benefici di una pedalata quotidiana, inquinamento e ciclabilità urbana

Premessa

Morire investiti è una tragedia. Quando si è giovani, con ancora una lunga aspettativa di vita, la tragedia è ancora maggiore.  Quando poi accade non per fatalità, ma per sprezzo delle regole di una società civile, allora alla tragedia si aggiunge una rabbia incontenibile, con le immagini della giovanissima vittima che non si cancellano dalla nostra memoria.
Questo blog ha sempre e solo trattato temi scientifici di cardiologia rivolti al pubblico, pertanto chi mi legge sa di non trovare riferimenti alla cronaca recente, né alla politica né al costume.
Ma questa volta, dopo un ragazzino finito sotto un tram un anno addietro e una giovanissima ragazza assassinata da un automobilista criminale, devo fare un’eccezione perché penso che ogni cittadino che si definisca tale, dotato pertanto di una coscienza civile, debba dare un segnale. Io non sono né un politico né un amministratore né un giornalista; sono un medico, pertanto vi esporrò alcuni dati tratti da studi scientifici sui benefici dell’attività fisica quotidiana (nella fattispecie, tragitto casa-lavoro in bicicletta).
Alcune considerazioni preliminari: gli italiani all’estero non sono certo famosi per il rispetto delle regole, lo so, lo vedo, lo percepisco quando parlo con i miei colleghi stranieri. Sono stato spesso nelle principali capitali europee, e al rientro in Italia, ho provato vergogna per molte cose che sono sotto gli occhi di tutti. Chiunque potrebbe dire che l’Italia è unica, patrimonio artistico, cultura, archeologia millenaria….. ma le cose che fanno di un Paese un posto “bello” per viverci sono altre: dalle tasse pagate da tutti alle strisce pedonali sacre, da una classe politica fatta di galantuomini alla certezza della giusta pena per i criminali e gli assassini a piede libero (vedi sopra), e così via.
Se queste sono le premesse, l’Italia non poteva certo essere all’avanguardia in tema di traffico e mobilità urbana cosiddetta “sostenibile”, visto che 1) tranne eccezioni la volontà politica locale di affrontare drasticamente tali temi è sempre mancata (vedi piste ciclabili tirate con la riga per terra, tanto per dire che son state fatte); 2) è parimenti mancata la volontà politica nazionale (vedasi codice della strada concepito per le auto, che in merito a regole non distingue tra veicolo motorizzato e a pedali: un senso unico ha una logica per le auto, ma è inutile per una bici; lo stop per l’auto deve differire da quello della ciclabile, come infatti è all’estero, con lo stop delle ciclabili davanti a quello per le auto).
Sarebbe fin troppo facile citare l’Olanda tutta (non solo le città), ove inviterei i nostri amministratori a recarsi in pellegrinaggio almeno una volta, mentre emblematico rimane il caso di Londra, ove per la prima volta l’argomento “rendiamo la vita molto più facile a chi va al lavoro in bici” è stata seriamente affrontata dal sindaco, Johnson. In quanto a Parigi, Copenhagen ed in particolare Berlino, si rimane stupiti dalla capillarità delle piste ciclabili e pertanto da come vengano sfruttate da tutti, grandi anziani compresi.
Io, da cardiologo che in città si sposta quasi solo in bici (ma anche felice possessore di un’automobile per uso extraurbano) non posso affermare che il bambino finito sotto il tram sarebbe ancora vivo se in questi decenni avessimo avuto un’amministrazione lungimirante e di calibro europeo (e che pertanto avesse creato una vera rete ciclabile e una seria dissuasione all’uso dell’auto come nelle migliori capitali europee, non consentendo certo quello sconcio di parcheggio selvaggio nella via della tragedia, concausa dell’incidente), perché anche se lo penso, non è il mio mestiere sindacare di urbanistica e di traffico. Posso solo cercare di convincere chi mi legge che l’attività fisica di una pedalata casa-lavoro e viceversa, fa bene, e non solo al cuore.

I benefici dell’attività fisica

Che l’attività fisica sia da intendersi come una vera e propria medicina è cosa nota, ne ho parlato dettagliatamente nel mio libro, con particolare riguardo ai benefici sul cuore.
A ben analizzare la quantità enorme di letteratura, non è solo il cuore a beneficiare di una regolare attitivà fisica quotidiana, in quanto esistono precise evidenze scientifiche in merito a riduzione di diabete mellito tipo 2, osteoporosi, depressione, obesità, carcinoma mammario e carcinoma del retto-colon.
L’evidenza di questo dato è tale che le più importanti società scientifiche mediche americane (American Heart Association in testa) hanno pubblicato diversi documenti ove si raccomanda almeno 30 min al giorno di attività fisica moderata/intensa.
Cerchiamo però di precisare meglio questo dato di fatto, a partire sempre dal solito punto, la volontà di fare. A volte si scopre l’acqua calda, è vero, ma a guardar bene si possono ricavare informazioni preziose. Un gruppo di ricercatori di Harvard (che non è esattamente una piccola Università di provincia) ha pubblicato un recente lavoro intitolato “tempo trascorso davanti alla TV, attività fisica e predisposizione genetica all’obesità” che sembra la scoperta dell’acqua calda solo a chi lo legge con superficialità o non ha un approccio scientifico alle cose. Perché chiunque di noi direbbe “embè, muoviti che ti aiuta a dimagrire”, mentre pochi si renderebbero conto che tale studio per la prima volta documenta come una precisa predisposizione genetica all’obesità (particolari loci responsabili dell’aumento dell’adipe, già identificati sui cromosomi) possa essere contrastata da una abitudine di vita. Tra l’altro, tra tutte le attività sedentarie, pare che lo stare seduto alla TV sia particolarmente deleterio (in soggetti predisposti) per il molto basso consumo calorico e per l’introito di calorie, spesso frequente.
Pertanto, visto che la maggior parte di noi trascorre la propria giornata in ambiente lavorativo, quindi trascorre ulteriore tempo negli spostamenti casa-lavoro, una delle scelte migliori che si potrebbero fare per ottimizzare il lato salutare della propria vita potrebbe essere la bicicletta come principale mezzo di trasporto urbano o tra paesi dell’hinterland, situati a distanze “ciclabili” dal centro.
Ed ecco che arriva la puntuale obiezione: se ci fossero delle ciclabili io andrei al lavoro in bici, ma non ci sono, pertanto vado in macchina. Già, non siamo nel nord Europa. E dire che esiste, pensate, uno studio osservazionale che ha analizzato come cambiano le abitudini di un quartiere ricco e uno povero di Los Angeles, prima e dopo la costruzione di una nuova pista ciclabile, c0n interessanti risultati, sia in termini statistici che sociologici; se la risposta delle diverse etnie ci interessa poco (tematiche americane che esulano dallo scopo di questo articolo), di grande interesse è invece sapere che quando si dà la possibilità alla gente di pedalare in sicurezza, i pendolari in bici aumentano, in questo studio fino al 38% (ma per noi italiani basta andare in città quali Ferrara o Reggio Emilia).
Abbiamo quindi acquisito due punti fermi: 1-l’attività fisica fa bene; 2-se si può pedalare in sicurezza, molti sarebbero invogliati a farlo per un uso quotidiano.
Una legittima obiezione sarebbe: già, ma la città è inquinata, pertanto se pedalo respiro più veleni.

Malattie cardiovascolari e inquinamento

Quando si parla di inquinamento, il livello medio di conoscenza è spesso superficiale, si parlicchia tra un luogo comune e l’altro, e si mette nel calderone tutto, dal buco dell’ozono (ma che sarà mai?) alle flatulenze dei bovini. Ora, nessuno fa il chimico-fisico di mestiere, men che meno io, però l’argomento merita un approccio più scientifico, che potrebbe partire dalla considerazione che le auto moderne emettono gas e inquinanti di gran lunga (ripeto, di gran lunga) più contenuti rispetto a una piccola utilitaria di decenni fa.
Ciò premesso, quanti saprebbero dire che cos’è il famigerato PM10 e da dove origina? PM sta per Particulate Matter, e si intende l’insieme di microscopiche sostanze nell’aria che consideriamo inquinanti. Il 10 sta per “al di sotto di 10 micron”, infatti la pericolosità di particelle cosi piccole sta nel non poter essere bloccate dalle difese dell’apparato respiratorio. La fonte principale di PM10 è la Natura: aerosol di sale marino, erosione delle rocce, vasti incendi… ma vi è anche un importante contributo umano, con i prodotti della combustione (e quindi gas di scarico). Non appena gli americani si resero conto dei danni (tangibili) sulla salute, ne ridussero ancor di più i limiti consentiti, portando a 35 microgr/mc il vecchio limite di 65 (National Ambient Air Quality Standards NAAQS).
Tanto per rimanere nel cardiovascolare (tralascio volutamente i danni sull’apparato respiratorio come tumori, asma e bronchiti croniche), eclatanti sono stati i dati pubblicati da un gruppo di ricercatori belgi e svizzeri (The Lancet, Volume 377, Issue 9767, Pages 732 - 740, 26 February 2011), i quali si sono chiesti quali fossero i fattori scatenanti un infarto in soggetti predisposti, tra inquinamento, emozioni, pasto abbondante, attività sessuale, esercizio fisico, alcool, cocaina e marijuana; manco a dirlo, l’inquinamento si è piazzato al primo posto.
È quindi di vitale importanza una presa di coscienza di tali aspetti, che deve necessariamente portare ad una modifica (graduale, ovvio) delle abitudini quotidiane, a cominciare dal chiedersi: se anziché andare dal punto A a B in auto ci andassi in bici (o con i mezzi, ovviamente, dipende dalla situazione locale), cosa ci perdo e cosa ci guadagno?

La rivoluzione inglese

Grazie al sindaco Boris Johnson, convinto fautore dell’uso della bici come mezzo principale di trasporto in città, a Londra si è assistiti ad una graduale rivoluzione, con concreti interventi a favore della ciclabilità urbana (beati loro). Il guadagno in termini di stress e inquinamento c’è stato di sicuro, col traffico già ridotto grazie alla tassa sul traffico della precedente amministrazione (Congestion Charge), ma bisogna ancora aspettare dati più concreti per capire l’effettivo risparmio in termini di malattie e vite umane; vi sono già alcuni studi in merito, che hanno preso in esame il caso di Londra e altri nel mondo (Eur J Public Health. 2011 Cycling for transport and public health: a systematic review of the effect of the environment on cycling), i cui risultati non sono ancora ben chiari.

Conclusioni
Il tema della ciclabilità urbana, qui trattato come modo per aumentare il nostro livello di salute e benessere (che mi tocca particolarmente da vicino), ha senso solo se facente parte di interventi che possono essere quanto più ampi vogliate, ma che devono avere come denominatore comune lo scoraggiare il traffico automobilistico. Ciò non può avvenire dall’oggi al domani visto che l’auto è stata per decenni al centro delle politiche del traffico (e i risultati si vedono), con un codice della strada centrato sull’auto e quindi anacronistico e imbarazzante se paragonato all’Europa (quanto parlare a vanvera sulle bici in contromano, in Europa è la regola ovunque, con tanto di divieto di accesso per le auto e sotto il simboletto della bici con scritto “eccetto” nelle rispettive lingue… a volte siamo proprio puerili nella nostra ignoranza). Ciò detto, dovranno necessariamente arrivare dei segnali forti, altrimenti i ragazzi continueranno a morire sulle strade per colpa di assassini (che non avranno nemmeno la certezza della pena), e tutti noi continueremo a vergognarci al ritorno da un viaggio in Europa.

Oltre a ciò di cui si discute spesso sui giornali e nei comitati di quartiere (come istituire zone 30), ecco alcuni suggerimenti

  1. La costruzione di parcheggi in città invoglia all’uso dell’auto, limitare la possibilità di parcheggio ai residenti
  2. Esistono le bici da carico. Una parte delle consegne (certo, una piccola parte) di una grande città potrebbero essere fatte in questo modo, per esempio con agevolazioni fiscali
  3. Le grandi catene di supermercati potrebbero incentivare l’uso della bici offrendo un piccolo sconto sul totale della spesa a chi dimostra di arrivare in bici, offrendo un parcheggio sicuro (stalli con un serio ancoraggio antifurto): il ritorno di immagine non sarebbe trascurabile; tra l’altro esistono carrelli porta spesa per bici, pieghevoli e per nulla ingombranti
  4. A proposito di ciclabili (serie, non con la riga per terra, che possono andar bene a Copenhagen, non qui) perché non si dà la priorità alle vie ove ci sono scuole, consentendo ai ragazzi di arrivare in sicurezza?
  5. Le zone commerciali dovrebbero essere le prime ad essere ciclabilizzate, basterebbe una piccola corsia da ambo i lati, stalli sicuri a intervalli regolari e magari postazioni di bike sharing frequenti, in modo da ridurre il traffico. Vedasi a tal proposito il caso di Corso Buenos Aires, a Milano, famoso per una ristrutturazione di qualche anno addietro, con creazione di marciapiedi larghissimi come una portaerei, ma senza uno straccio di volontà politica di creare qualcosa di lontanamente ciclabile… ovvio che poi a farlo dopo costa, se si fosse fatto durante…. ma scusate, per un attimo credevo di essere in Europa…

domenica 28 ottobre 2012

Ancora in tema di fibrillazione atriale e ablazione

L’argomento fibrillazione atriale è già stato trattato più volte su questo blog, ma vorrei tornare ad aggiornarvi , vista la recentissima pubblicazione di un articolo (N Engl J Med 2012; 367:1587-1595) in quella che viene considerata la più prestigiosa rivista scientifica medica, il New England Journal of Medicine, fondata due secoli fa.
Per chi non lo sapesse, la fibrillazione atriale è una perdita del normale ritmo regolare del cuore, sostituito da un’attività degli atri totalmente disorganizzata, tale pertanto da far battere l’intero cuore in maniera irregolare. Comporta essenzialmente due cose: anzitutto il rischio di embolie periferiche o ictus embolici cerebrali, nonché sintomi più o meno fastidiosi, come cardiopalmo e/o ridotta tolleranza allo sforzo (a proposito, i giornalisti scrivono sempre “cardiopalma”, qualsiasi medico dice invece “cardiopalmo”).
Il trattamento è sempre consistito in una terapia anticoagulante, al fine appunto di ridurre il rischio tromboembolico (e in tema vi sono diverse novità, ne abbiamo accennato ma tornerò a ragguagliarvi), nonché in una terapia antiaritmica, cioè farmaci in grado di ridurre le recidive di fibrillazione atriale una volta riportato il ritmo alla norma (mediante cardioversione elettrica, per esempio).
Il problema è che l’efficacia della terapia antiaritmica non è eccelsa, in quanto le recidive aritmiche possono sempre verificarsi (e talora sono molto frequenti, tali da ridurre la qualità di vita) pertanto si è sviluppato negli ultimi 15-20 anni un approccio interventistico, volto ad eliminare la causa della fibrillazione atriale, cioè colpire il punto di innesco dell’aritmia. Questo punto (semplifichiamo così) è situato in una zona del cuore molto difficile e delicata, l’interno delle vene polmonari, cioè quelle quattro vene che riportano in atrio sinistro tutto il sangue già ossigenatosi nei polmoni.
A partire da tale intuizione, i principali elettrofisiologi del mondo si sono sfidati a colpi di elettrocatetere, per mettere a punto procedure di ablazione trans catetere che riesca a raggiungere le vene polmonari e creare una microscopica bruciatura proprio nella zona ove parte l’aritmia.  È stata una vera e propria corsa ai risultati, per poter affermare la propria tecnica come quella efficace, e pertanto poter pubblicare i risultati agli occhi del mondo. Tale procedura di ablazione della fibrillazione atriale è molto più complessa della media delle altre procedure ablative, in quanto bisogna anzitutto raggiungere l’atrio sinistro facendo una puntura all’interno del cuore (puntura transettale), e quindi muoversi all’interno del cuore con l’ausilio di sofisticatissimi sistemi di mappaggio (analoghi al GPS) che guidano l’operatore millimetricamente, facendogli vedere ove è situata la punta del catetere ablatore. Inoltre, qualsiasi procedura nelle sezioni sinistre del cuore (e quindi nel circuito arterioso) è estremamente più delicata di una nelle sezioni destre, in quanto anche la minima bollicina d’aria dentro i circuiti di infusione o il più piccolo coagulino potrebbero scatenare un ictus o una embolia periferica.
Dicevamo, gli elettrofisiologi di tutto il mondo si sono pertanto gettati a capofitto in questa procedura, ottenendo risultati all’inizio scarsi, progressivamente più soddisfacenti, come è nella naturale evoluzione delle cose, al punto che l’ablazione è stata proposta sempre più precocemente (una volta si diceva: proviamo i farmaci, se non funzionano vedremo di sottoporla ad ablazione), fino all’articolo sopra citato, che ha analizzato i risultati di un approccio interventistico versus farmacologico in pz con fibrillazione atriale parossistica mai trattata in precedenza.
I risultati non sembrano incoraggianti: se parliamo di trattamento ablativo come primo approccio ad una fibrillazione atriale parossistica mai trattata prima, l’efficacia di esso equivale quella farmacologica (e quindi abbastanza scarsa) nell’arco dei due anni successivi, a fronte però di una percentuale di complicanze maggiori in chi era stato ablato rispetto ai trattati farmacologicamente.
Ciò premesso, chi soffre di tale aritmia farà bene a rivolgersi al proprio cardiologo, col quale verrà decisa la strategia terapeutica più appropriata

domenica 16 settembre 2012

Novità in tema di fibrillazione atriale ed anticoagulanti

 Chi è abituale lettore di queste pagine sa che i pz affetti da fibrillazione atriale sono costretti ad assumere anticoagulanti orali a vita, al fine di evitare rischi di tipo trombo embolico.
Oltre agli effetti indesiderati di tale classe di farmaci, questo comporta la necessità di dover dosare periodicamente il farmaco mediante un prelievo di sangue, che deve essere effettuato a scadenze regolari, secondo quanto in genere stabilito dai centri trasfusionali.
È pertanto con grande interesse che è stata accolta l’approvazione di un nuovo anticoagulante orale (non recentissima, se ne è già parlato su queste pagine), chiamato dabigatran, nella fibrillazione atriale non valvolare. Lo studio principale sul quale i vari organi di controllo internazionali sui farmaci si sono basati è stato il RELY, ove il confronto è avvenuto col warfarin, al momento considerato farmaco di riferimento.
La novità è di grande interesse per i pazienti è la stabilità dell’effetto del farmaco, pertanto non è più necessario prelevare periodicamente il sangue per dosarne l’effetto, saranno sufficienti due somministrazioni al giorno.
L’efficacia è forse migliore del riferimento, il warfarin, mentre tra gli aspetti negativi, sempre riferendoci allo studio RELY, la dispepsia sarebbe sensibilmente più frequente, superando l’11% contro un 5% circa del warfarin (possiamo riferirci alla dispepsia come ad una generica difficoltà alla digestione).
Qualche preoccupazione ha destato l’assenza di un vero antidoto come invece esiste per il warfarin (cioè la vitamina K), per cui in caso di sovradosaggio e di concreti rischi emorragici, bisognerebbe ricorrere a trasfusioni di plasma, in ambiente ospedaliero; resta poi sottinteso il problema del costo del farmaco, di gran lunga superiore a quello del warfarin

sabato 23 giugno 2012

Atleti e Morte Improvvisa (2)



Dopo gli ultimi fatti di cronaca, molti utenti che hanno cercato informazioni in Rete sono approdati su questo blog, scrivendomi per un parere. Ho deciso allora di tornare sull’argomento, tanto per l’interesse suscitato quanto per una mia impossibilità a rispondere ad ogni singola mail.
La morte improvvisa dell’atleta è più frequente nel maschio; negli atleti di età inferiore a 35 anni la causa più frequente è la cardiomiopatia ipertrofica (seguita dalla cardiomiopatia aritmogena e dalle anomalie anatomiche coronariche), mentre in età più avanzate alla base vi è maggiormente la cardiopatia ischemica (quindi placche coronariche, ne abbiamo già più volte parlato).

Che cos’è la cardiomiopatia ipertrofica, responsabile di un terzo delle morti improvvise sul campo da gioco? È una malattia genetica discretamente variabile, tanto nei geni coinvolti quanto nelle manifestazioni cliniche. L’aspetto più tipico salta all’occhio al microscopio (la disorganizzazione delle fibre muscolari miocardiche, detta “myocardial disarray”), che si traduce in alcune alterazioni morfologiche del ventricolo sinistro, come il marcato ispessimento e la scarsa distensibilità, con l’ispessimento tipicamente asimmetrico a colpire maggiormente il setto, al punto da farlo sporgere all’interno della cavità e ostacolare pertanto l’efflusso del sangue verso l’aorta.
Questo sovvertimento del tessuto con cui è fatto il ventricolo sinistro porta all’innesco di gravi tachicardie e fibrillazioni ventricolari, gravi al punto da causare sincope e morte improvvisa (per chi non si fosse acculturato leggendo i post precedenti, una aritmia ventricolare maligna è un impulso o una serie di impulsi elettrici che originano da aree del cuore differenti dal normale, che causano contrazioni cardiache del tutto inefficaci, pertanto incompatibili con la vita).
La cardiomiopatia ipertrofica è molto facilmente identificabile con l’ecocardiogramma (la disorganizzazione delle miofibrille si diagnostica mediante prelievo bioptico cardiaco).

La seconda causa più frequente è la cardiomiopatia o displasia aritmogena del ventricolo destro, anch’essa ereditaria, meno facilmente identificabile col semplice ecocardiogramma (molto importate può essere una risonanza magnetica cardiaca), caratterizzata dalla sostituzione di una parte della parete del ventricolo destro con un tessuto che non è normale, e che ancora una volta predispone ad aritmie ventricolari maligne.

In ultimo vi sono le anomalie di origine delle coronarie, che possono essere quanto mai varie e non sempre predisponenti a morte improvvisa; tra quelle più temibili vi è la coronaria principale di sinistra che invece origina da destra, rimanendo pertanto in un certo senso “schiacciata”, con gradi di compressione che possono acuirsi durante sforzo fisico, innescando sempre aritmie ventricolari maligne da ischemia generalizzata di tutto il ventricolo sinistro. Questo tipo di anomalie non è facilmente diagnosticabile, in quanto le coronarie con l’ecografia non si vedono (se non in minima parte), il test da sforzo potrebbe essere del tutto normale (e spesso lo è), ed esami più sofisticati quali cardioTAC non si fanno in atleti fino a quel momento del tutto asintomatici.

Restano poi altre cause rare, sospettabili quando l’autopsia è totalmente negativa, quali la sindrome di Wolff Parkinson White (presenza di una via elettrica anomala tra atri e ventricoli, che predispone a cortocircuiti ed aritmie maligne), anch’essa non facilmente diagnosticabile quando tale via accessoria è denominata “occulta”.
Resta poi l’enorme capitolo delle sostanze illecite, il cosiddetto doping (vedere il sito della World Anti Doping Agency, WADA, per maggiori informazioni), il cui uso e abuso può predisporre a una miriade di alterazioni cardiache, più o meno gravi; paradossale è poi il caso di alcune sostanze ritenute innocue, praticamente degli “integratori” (parola che vuol dire tutto e nulla), rivelatesi poi altamente tossiche (e pertanto bandite in molti paesi, quali l’efedra o ma huang).
Questo è pertanto un breve excursus delle principali cause che ogni buon lettore che vuole interrogarsi sulle cause di una morte improvvisa di un atleta dovrebbe sapere, anziché sospettare chissà cosa o, peggio, non far nemmeno caso alla pubblicazione dei risultati del riscontro autoptico.

Per chiudere, ecco l’elenco di cose da sapere e da valutare prima che un ragazzo voglia avviarsi allo sport, scaturito dalla famosa Bethesda Conference sullo screening atletico preagonistico (pubblicate da BJ Maron su Circulation nell’ormai lontano 1996):

  1. 1.      
  2. Storia familiare di morte improvvisa prematura
  1. 2.     
  2. Note cardiopatie (come quelle elencate) in parenti di età inferiore a 50 aa
  1. 3.      
  2. Storia di pregressi soffi cardiaci
  1. 4.     
  2. Ipertensione arteriosa
  1. 5.      
  2. Astenia
  1. 6.     
  2. Sincope o lipotimia
  1. 7.      
  2. Toracalgia da sforzo
  1. 8.     
  2. Dispnea da sforzo eccessiva
  1. 9.     
  2. Riscontro di soffio cardiaco
  1. 10.  
  2. Asimmetria dei polsi femorali (escludere coartazione aortica)
  1. 11.  
  2. Segni caratteristici della sindrome di Marfan
  1. 12. 
  2. Misurazione pressoria (che sembra banale ma molti giovani non l’hanno mai misurata)


mercoledì 25 aprile 2012

Omocisteina e Iperomocisteinemia: che fare?


È possibile che abbiate letto da qualche parte (o che qualcuno vi abbia messo la pulce nell’orecchio) che elevati livelli di omocisteina nel sangue costituiscano un rischio aggiuntivo di andare incontro a malattie cardiache.
Che cos’è l’iperomocisteinemia? È l’aumento dei livelli dell’omocisteina, dovuta ad deficit di un enzima per cause genetiche o per scarsa assunzione di alcune sostanze, come i folati (contenuti in alcune verdure).
Tale condizione si associa ad un aumento di eventi tromboembolici, specie nel distretto venoso, ma vi può essere anche un incremento del rischio di eventi coronarici, carotidei e del distretto arterioso periferico (quindi da infarto miocardico a trombosi periferiche).
Pertanto, se tanto mi dà tanto, si è pensato che, nel caso di riscontro (che in genere è occasionale, cioè uno fa un prelievo per altri motivi, o a fini preventivi) di elevati valori di omocisteinemia sarebbe bastato assumere grandi quantità di vitamina B6 e di acido folico per ridurre l’incidenza di eventi cardiovascolari. Peccato che questo effetto “protettivo” della supplementazione vitaminica non abbia dato gli effetti sperati, malgrado l’atteso effetto di riduzione dei livelli di omocisteina, e ciò secondo quanto affermato da ben due studi che hanno analizzato la questione, il NORVIT  e il HOPE-2.
Il NORVIT (Norwegian Vitamin Trial) ha randomizzato un totale di 3780 pazienti (che avevano già avuto infarto miocardico) a trattamento con o senza le vitamine in questione: dopo un follow up abbastanza lungo non si è avuta alcuna riduzione di eventi cardiovascolari, pur in presenza dell’effetto atteso, cioè della riduzione dei livelli di omocisteina grazie alla somministrazione vitaminica. Analogo risultato è stato quello dell’HOPE-2 (Heart Outcome Prevention Evaluation 2), con più di 5000 pazienti seguiti per 5 anni.
Pertanto, alla luce dei risultati di questi due studi, oggi non è raccomandata l’assunzione di vitamine del gruppo B e di folati in presenza di omocisteinemia elevata, né in prevenzione primaria (cioè chi non ha mai avuto nulla al cuore e vuole fare prevenzione per evitare guai) che secondaria (cioè chi ha già avuto eventi cardiovascolari e ne deve prevenire l’insorgenza di ulteriori)

martedì 6 marzo 2012

Potenza della Diagnostica...


guardate questo filmato, potrete rendervi conto delle potenzialità diagnostiche delle macchine moderne, se impiegate da mani esperte!

domenica 29 gennaio 2012

Rischi e Benefici dell'Attività Fisica


Cosa sappiamo di prevenzione delle malattie di cuore? Poco, in genere. E quel poco che apprendiamo dall’esperto di turno, in TV o sui giornali, raramente lo mettiamo in pratica. Per chiarirci meglio le idee affronteremo l’argomento “esercizio fisico”, tanto in prevenzione primaria (chi non ha mai avuto eventi cardiovascolari) quanto in prevenzione secondaria (chi ha già avuto eventi, per esempio un infarto o una angioplastica coronarica o carotidea).
È noto che, in ambito prevenzione, l’attività fisica ha un ruolo di primo livello. Meno noto è tutto ciò che essa provoca nell’organismo e se tali modifiche, in fin dei conti, apportino più benefici o più danni, ma andiamo con ordine.

Attività fisica regolare

La base della prevenzione è rappresentata da stop al fumo, alimentazione sana ed attività fisica, che detta così sembra semplice. In realtà i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dimostrano che nel mondo i giovani di sport ne fanno meno, che la quantità di attività fisica diminuisce in chi ha un livello di istruzione basso o ha difficoltà economiche; anche l’Italia segue questa tendenza, e la sedentarietà aumenta da nord verso sud.
Uno studio molt0 recente (JACC 2011) ha chiarito che vi è una correlazione tra l’allenamento (indipendentemente dall’età) ed eventi cardiovascolari letali; dopo aver seguito un campione di popolazione per più di 25 anni, si è visto infatti che chi è più allenato ha meno probabilità di andare incontro ai classici fattori di rischio; si è visto inoltre che i benefici di un livello di allenamento stabile sono maggiori proprio in chi parte svantaggiato, cioè con molti fattori di rischio (per esempio ipertensione, diabete e ipercolesterolemia).

Attività fisica sporadica

Come già trattato nel mio libro, in condizioni particolari un evento cardiovascolare (un infarto, ad esempio) può essere provocato da attività fisica sporadica, attività sessuale o forti emozioni. Fare esercizio sporadicamente può aumentare il rischio di morte improvvisa come dimostrato da diversi studi (recente metanalisi su JAMA 2011)

Quanta attività fisica fare

L’Organizzazi0ne Mondiale della Sanità consiglia almeno 30 min per 5 giorni a settimana al fine di avere dei concreti benefici in termini di prevenzione cardiovascolare, ciò indipendentemente dalle condizioni cliniche preesistenti; ovviamente non è possibile generalizzare in merito a che tipo di sport svolgere esattamente, diverse potrebbero essere le condizioni che rendano meno consigliabile uno sport anziché un altro, pertanto è raccomandabile consultare il proprio medico o eventualmente uno specialista in medicina dello sport.
Tuttavia, uno studio recente pubblicato su Circulation 2011, ha cercato di rispondere più in dettaglio a tale quesito: ha considerato due campioni di popolazione, uno fino a 150 minuti di esercizio fisico/settimana e circa 550 Kcal/settimana (avete mai giocato con un cardiofrequenzimetro mentre vi allenate? Molto istruttivo, vi assicuro) e l’altro che si allenava in media 300 min/settimana e circa 110 Kcal. Nel primo gruppo la riduzione del rischio di malattia coronarica era di circa il 14%, nel secondo di circa il 20%. Il dato che però non ci si aspettava, secondo tali autori, è che tali benefici (in termini di riduzione del rischio) sarebbero più marcati nelle donne anziché nei maschi
Dopo tali considerazioni, volessimo iniziare a fare sport, chi potrebbe dirci qual è il rischio di incorrere in seri guai cardiovascolari? Esistono dati sulla popolazione generale, senza storia di cardiopatie, che fa sport? Fino al 2011 le casistiche erano limitate, in Italia avevamo solo i dati del Veneto, grazie all’iniziativa di studiosi locali. Nel 2011 però, su Circulation, è uscita la prima casistica sul rischio di morte improvvisa della popolazione generale sana che fa attività sportiva, ad opera di autori francesi. Sono stati considerati tutti i casi di arresto cardiaco durante sport dal 2005 al 2010, di tutti i cittadini compresi tra 10 e 75 anni e si è visto che le cose vanno peggio di quanto si ritenesse, in quanto i casi riportati siano da 5 a 17 per milione, con 800 nuovi casi all’anno (in Francia, negli USA circa 4200). Molto interessante (e scoraggiante) notare che tali casi di arresto cardiaco per il 95% si verificavano in soggetti senza pregressa storia di cardiopatie! Ancor più scoraggiante è notare che, sebbene tali drammatici episodi fossero verificatisi quasi sempre in presenza di testimoni, solo nel 30% dei casi veniva praticata la Rianimazione Cardiopolmonare, a riprova del fatto che chi assiste ad un arresto cardiaco dovrebbe iniziare immediatamente tali manovre parallelamente ad avvertire il 118,  evitando di perdere minuti preziosi o peggio, lasciarsi prendere dal panico.