lunedì 12 settembre 2011

quando il clopidogrel non ce la fa....

Chiunque sia stato sottoposto ad angioplastica coronarica, sia per curare un'angina che per un più complesso infarto miocardico, ha conosciuto di certo il clopidogrel, commercialmente noto come "Plavix".
Il pubblico si accorge anche di altre peculiari caratteristiche del farmaco: la seccatura del piano terapeutico (quel documento che consente di avere il farmaco gratis a chi ne ha diritto, visto l'alto costo) e la raccomandazione di assumerlo scrupolosamente (per un mese o per un anno almeno, a seconda del tipo di stent impiantato).
Da tempo ci si è però accorti che tale farmaco non produce lo stesso effetto su tutti i pazienti: in alcuni potrebbe essere come acqua fresca, esponendoli al rischio di complicanze in sede di impianto di stent. Questo aspetto era in parte già noto durante gli studi preliminari, in quanto il clopidogrel si sa essere ampiamente captato dal fegato e ivi metabolizzato, cioè ridotto a metaboliti (una specie di derivati), in misura piu o meno variabile a seconda di come la genetica ha conformato quel fegato piuttosto che quell'altro.
Questa caratteristica, un tempo poco nota, è stata via via chiarita (in buona parte), al punto da sintetizzare un nuovo farmaco, una sorta di evoluzione, appartenente alla stessa famiglia e chiamato prasugrel, già approvato negli Stati Uniti già dal 2009.
Si preannuncia un impiego su più vasta scala anche in Italia, come emerso dai lavori del 45° Congresso di Cardiologia dell'Ospedale Niguarda, attualmente in corso a Milano, che vede chi vi scrive tra gli iscritti.
Sarà però indispensabile analizzare le linee guida in merito (tornerò sull'argomento se qualcuno di voi lettori ne farà richiesta) e prescrivere il prasugrel quando effettivamente indicato, poichè è già nota (dagli studi preliminari) la maggiore tendenza al sanguinamento del prasugrel rispetto al clopidogrel