Per chi non lo sapesse, la fibrillazione atriale è una
perdita del normale ritmo regolare del cuore, sostituito da un’attività degli
atri totalmente disorganizzata, tale pertanto da far battere l’intero cuore in
maniera irregolare. Comporta essenzialmente due cose: anzitutto il rischio di
embolie periferiche o ictus embolici cerebrali, nonché sintomi più o meno
fastidiosi, come cardiopalmo e/o ridotta tolleranza allo sforzo (a proposito, i
giornalisti scrivono sempre “cardiopalma”, qualsiasi medico dice invece “cardiopalmo”).
Il trattamento è sempre consistito in una terapia
anticoagulante, al fine appunto di ridurre il rischio tromboembolico (e in tema
vi sono diverse novità, ne abbiamo accennato ma tornerò a ragguagliarvi), nonché
in una terapia antiaritmica, cioè farmaci in grado di ridurre le recidive di
fibrillazione atriale una volta riportato il ritmo alla norma (mediante
cardioversione elettrica, per esempio).
Il problema è che l’efficacia della terapia antiaritmica non
è eccelsa, in quanto le recidive aritmiche possono sempre verificarsi (e talora
sono molto frequenti, tali da ridurre la qualità di vita) pertanto si è
sviluppato negli ultimi 15-20 anni un approccio interventistico, volto ad
eliminare la causa della fibrillazione atriale, cioè colpire il punto di
innesco dell’aritmia. Questo punto (semplifichiamo così) è situato in una zona
del cuore molto difficile e delicata, l’interno delle vene polmonari, cioè
quelle quattro vene che riportano in atrio sinistro tutto il sangue già
ossigenatosi nei polmoni.
A partire da tale intuizione, i principali elettrofisiologi
del mondo si sono sfidati a colpi di elettrocatetere, per mettere a punto
procedure di ablazione trans catetere che riesca a raggiungere le vene
polmonari e creare una microscopica bruciatura proprio nella zona ove parte l’aritmia.
È stata una vera e propria corsa ai
risultati, per poter affermare la propria tecnica come quella efficace, e
pertanto poter pubblicare i risultati agli occhi del mondo. Tale procedura di
ablazione della fibrillazione atriale è molto più complessa della media delle
altre procedure ablative, in quanto bisogna anzitutto raggiungere l’atrio
sinistro facendo una puntura all’interno del cuore (puntura transettale), e
quindi muoversi all’interno del cuore con l’ausilio di sofisticatissimi sistemi
di mappaggio (analoghi al GPS) che guidano l’operatore millimetricamente,
facendogli vedere ove è situata la punta del catetere ablatore. Inoltre, qualsiasi
procedura nelle sezioni sinistre del cuore (e quindi nel circuito arterioso) è
estremamente più delicata di una nelle sezioni destre, in quanto anche la
minima bollicina d’aria dentro i circuiti di infusione o il più piccolo
coagulino potrebbero scatenare un ictus o una embolia periferica.
Dicevamo, gli elettrofisiologi di tutto il mondo si sono
pertanto gettati a capofitto in questa procedura, ottenendo risultati all’inizio
scarsi, progressivamente più soddisfacenti, come è nella naturale evoluzione
delle cose, al punto che l’ablazione è stata proposta sempre più precocemente
(una volta si diceva: proviamo i farmaci, se non funzionano vedremo di
sottoporla ad ablazione), fino all’articolo sopra citato, che ha analizzato i
risultati di un approccio interventistico versus farmacologico in pz con
fibrillazione atriale parossistica mai trattata in precedenza.
I risultati non sembrano incoraggianti: se parliamo di
trattamento ablativo come primo approccio ad una fibrillazione atriale
parossistica mai trattata prima, l’efficacia di esso equivale quella
farmacologica (e quindi abbastanza scarsa) nell’arco dei due anni successivi, a
fronte però di una percentuale di complicanze maggiori in chi era stato ablato
rispetto ai trattati farmacologicamente.
Ciò premesso, chi soffre di tale aritmia farà bene a
rivolgersi al proprio cardiologo, col quale verrà decisa la strategia
terapeutica più appropriata
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